08 febbraio 2006

mondina-etiquette

E' forse azzardato cercare di definire l'etichetta, o meglio, il giusto comportamento che una mondina deve avere nei confronti della squadra? Proverò a descriverlo.

L'abbigliamento è importantissimo, deve essere funzionale, pratico e, soprattutto, non troppo succinto. Del resto, le mie compagne di lavoro erano signore dai 45 anni in su, costrette a mostrare le cosce per lavorare nel fango.

Il capo preferito da tutte era la polo a manica corta, possibilmente bianca o beige per non attirare i raggi del sole e gli insetti.

Api e calabroni hanno un'adorazione particolare per le magliette arancioni, bordeau e verde acido, probabilmente perché ricordano loro il colore dei fiori e della frutta.

Le braccia non erano mai scoperte, ma riparate dalle "manichette", salsicciotti di stoffa chiusi alle estremità da due elastici: servivano a riparare gli avambracci dalle punture del riso e da incontri ravvicinati con animaletti vari. Al polso le manichette incrociavano i guanti in lattice.

Sotto si portavano dei pantaloni corti. Le più anziane rimboccavano le bermuda al ginocchio, altre sceglievano degli shorts come quelli dei pugili. Gli accessori erano: un cappello di paglia, detta "lobia", al collo un foulard e infine, le comodissime scarpette di gomma. Le più previdenti viaggiavano anche con un marsupio dentro al quale tenevano impermeabile, fazzoletti, caramelline (i mintin..) e l'inseparabile stick di Autan.

Il mio abbigliamento però era una variante unica, nel senso che, se la campagna era nascosta dalla strada, restavo in costume, altrimenti indossavo un paio di pantaloncini ridottissimi, una canotta da palestra e in testa il cappellino con visiera. Odiavo stivali e guanti, mi obbligavano a metterli sono in previsione di un campo infestato da topi, sarebbe stato troppo pericoloso mondare senza protezione.

Spesso le mie colleghe ingaggiavano una vera e propria gara: vinceva chi si era sporcata di meno al termine della giornata. Non vi dico la mia prima stagione: se solo pensate che mi schiaffeggiavo addosso l'erba infangata per allontanare i tafani... neppure i capelli si salvavano più, avevo terra dappertutto, uno spettacolo!

E per fare la pipì?
Le prime volte tornavo all'argine e non c'era mai un albero, un cespuglio, dietro al quale ripararsi. Nulla. Mi sbrigavo facendomela praticamente sui piedi per paura che qualcuno mi vedesse. Presto fui costretta a fare come le altre.

Lasciavano che la fila andasse avanti di qualche metro, poi accostavano le mutande di lato e la facevano lì in mezzo al riso.. così e basta! Mi insegnarono perfino a cambiare l'assorbente durante il ciclo: si mettevano in cerchio ed io, velocemente, facevo la sostituzione. Questo metodo veniva utilizzato anche quando c'erano aggregati a noi il padrone o altri contadini.

Per la pausa pranzo l'etichetta era rigorosa: non si parlava, tanto meno si discuteva, concentrate solo sul cibo, anche un piccolo rumore risultava fastidioso. Doveva essere l'ora del silenzio, qualcuna mangiava velocemente le sue michette per potersi appisolare sull'erba o sotto un albero. Altre immergevano i piedi in un fosso, parlottando a bassa voce.

 Se non stavo distesa ad osservare il cielo, dando un nome diverso ad ogni nuvola, leggevo con avidità romanzi o fumetti. Presto le compagne presero ad informarsi sulle mie letture e così mi ritrovai a riassumere le storie lette, appuntamento che divenne una tortura, nelle ore calde, in cui la sete la faceva da padrona.



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