19 gennaio 2014

Zia Angela

Queste bellissime rose le dedico a lei.

Arcangela, nome per esteso, era la sorella minore di mia nonna Angiolina.
Leva 1910.

Era di una bellezza che rispettava proprio il suo nome, sembrava un angelo, ma con un carattere ribelle.

A lei la vita di campagna faceva orrore. Non si era fermata alle elementari, aveva insistito per arrivare a prendere la licenza media, allora chiamata avviamento.

Riuscì a trovare un impiego a Vercelli presso due distinte signore che commerciavano in tessuti. Prendeva la bicicletta alle 6 del mattino, dalla cascina pedalava per alcuni chilometri fino alla stazione, saliva in treno ed arrivava alle 7 e mezza in città. A passo veloce attraversava il corso principale e per le 8 cominciava il lavoro.

La mia bisnonna Ursula non sopportava di vedere la figlia tornare con le riviste di moda e sempre qualche cosetta di nuovo comprata al mercato. La voleva come la sua primogenita, Angiolina,: una ragazza a posto, senza grilli per la testa.
Ma ognuno di noi ha il proprio destino già scritto.

Una mattina Angela perse il treno. Armata di buona volontà si mise a pedalare per raggiungere in bici la città, quando un giovanotto, su una splendida auto, si fermò ai bordi della strada, per chiederle un’informazione.
Scoprì che quel bel giovane era un collaudatore di automobili della famosa scuderia Alfa Romeo. S’era perso cercando la strada per Vercelli. Lei intrapredente, rispose che l’avrebbe accompagnato volentieri, visto che aveva perso il treno e doveva proprio andare in città. Così nascose la bicicletta ai bordi di un campo di mais e salì in auto.

Fu un colpo di fulmine per entrambi. Da quel giorno Francesco venne da Milano nei fine settimana, per stare insieme a lei, e poi tornarsene a casa alla sera.
Angiolina era preoccupata per la sorella e cercò di ostacolare l’amore tra i due. Angela era troppo giovane con i suoi 16 anni, l’altro sembrava un avventuriero, con almeno 10 anni in più.

Finché la zia non rimase incinta. Evento gravissimo! Cosa fare? In famiglia erano cattolicissimi!! Ma Francesco fu così contento che la sposò nel giro di un mese e se la portò a Milano, a Piazzale Loreto, dove venne loro offerto un appartamento in uno stabile signorile, in cambio del servizio di custodia.
Nacque Giambattistino, detto Tino, la zia si faceva accompagnare con l’auto in cascina a trovare i suoi. Pranzavano, facevano una passeggiata attorno all’aia e ripartivano per la metropoli. Arrivava vestita all’ultima moda, acconciata da gran signora, con il rossetto e le scarpe con il tacco.

Ma cominciò la guerra. La zia non risentì della crisi economica, perché il marito continuava a lavorare all’Alfa e lei si era data alla borsa nera. Se in campagna, con gli orti, si poteva mangiare, in città si cercava di barattare i generi alimentari con ciò che si aveva di prezioso e Angela divenne molto scaltra. Riusciva a portare ai nonni zucchero, orzo, olio e in cambio ne riceveva burro, uova, latte.

Milano era però troppo pericolosa a causa dei bombardamenti e in cascina stavano male al pensiero dei familiari in città. Mia nonna continuava a chiedere alla sorella di restare da loro, ma lei non voleva lasciare il marito da solo e il figlio stava facendo il liceo, suonava il violino, la loro vita era lì, non potevano mollare tutto così. Rassicurava i parenti dicendo che quando c’erano le sirene bastava correre nei rifugi, la città in centro non veniva colpita dalle bombe, gli aerei puntavano le periferie, con le fabbriche. Si sentivano al sicuro.

Una notte ci fu un bombardamento che rase al suolo completamente la zona di Piazzale Loreto. Le sirene si erano appena messe a suonare, quando il palazzo di mia zia fu colpito da una bomba. Lei riuscì a salvarsi perché rimase sotto una trave portante, mentre il marito e il figlio vennero travolti dalle macerie.
Restò ferma, in vestaglia, con la polvere in gola, respirando a fatica. Dopo il fragore tremendo, ci fu silenzio. Poi li sentì. Il marito chiedeva da bere, il figlio urlava: “aiutami mamma, ti prego…”.

Allora corse in strada ma non c’era più né strada né case né alberi. Stava sorgendo il sole, illuminando solo muri sconquassati, case sventrate, gente che correva chiamando i pompieri, le forze di polizia. Si misero a scavare con le pale, vanghe, qualcuno con i cucchiai da cucina e altri con le mani, anche mia zia raspò tanto che si ruppe le dita. Intanto Francesco la chiamava: “Angela sono qua, e Giambattista dov’è, è con te?’” e lei rispondeva “sì, sta qui, sta scavando, ma gli è andata via la voce per lo spavento…” poi andava dal figlio e gli parlava: “adesso stanno arrivando con le pale, aspetta ancora un po’” e lui: “mamma, ho tanto male… mamma, aiutami, ho tanto male…”.
Li cercarono per due giorni, sepolti da tre piani di macerie, e all'alba del terzo giorno trovarono prima il ragazzo, con il torace compresso da un masso e il viso sfigurato, più in là il padre.

La nonna, sentita la tragedia per radio, partì subito dopo il bombardamento assieme agli altri parenti, purtroppo non riuscì neppure ad entrare in città, talmente regnava la confusione. Dovette aspettare in fila che aprissero le strade e giunse dalla sorella appena in tempo per trasportare i due uomini alla chiesa vicina.
I funerali si svolsero presto e vennero sepolti in una fossa comune, nel Cimitero Monumentale, perché le salme erano tante, troppe.
La zia volle restare a Milano. Divenne la dama di compagnia di una contessa rimasta anch'ella sola. Alla nobildonna piaceva viaggiare e la portò con sé in giro per il mondo, spingendosi fino all'India.

Dopo alcuni anni Angela tornò in paese e si ricongiunse con mia nonna Angiolina, che da sempre le teneva riservata una stanza. Si affezionò a mia madre come ad una figlia, tanto che quando mamma si sposò e poco dopo nacqui io, Angela si prese cura della nostra famiglia. Ma l'evento che la fece tornare felice fu la nascita di mio fratello Remo, un bel bambino rosso di capelli, proprio come il suo Giambattista. Fu la luce dopo il buio, divenne instancabile. Ci insegnò ad amare la lettura, l'arte, ad apprezzare le cose belle. Una volta al mese, con il treno, si andava nella sua Milano, ci raccontava gli eventi successi nel passato ma anche le novità, i cambiamenti.

Veniva da noi un paio di giorni alla settimana, con la corriera, per aiutare i miei nel negozio. mamma lavorava fino a tardi, così lei ci puliva a fondo le camere, era fissata con la polvere e i pavimenti dovevano brillare. Anche quel giorno maledetto l’aveva passato a lustrarci la casa. Era prima di ferragosto. Avevano lavorato fino a tardi, fattasi mezzanotte la zia chiese a mio padre di essere riaccompagnata a casa. Papà era stanchissimo, ma sapeva che lei non riusciva a dormire nei letti degli altri, così tirò fuori la macchina per un ultimo giro fino al paese vicino. 

Fu davvero un ultimo giro, perché per una distrazione, mio padre prese in pieno con l’auto un ponte di cemento, capottandosi più volte. La Mercedes rimase con le ruote all'insù e per l’urto fortissimo mia zia perse conoscenza, mentre papà rimase incastrato tra le lamiere. Nel sedile posteriore c’era mio fratello che si ritrovò sbalzato fuori dal finestrino posteriore della vettura, restando fortunatamente incolume. Si fermarono altre macchine per soccorrere gli incidentati e qualcuno avvisò mia madre dell’accaduto. Furono trasportati in ospedale. Mia zia parve subito la più grave, papà era lucido, tranquillo, aveva male ad una gamba e già valutava il danno per il suo lavoro.

Zia riprese coscienza ma si era rotta il bacino e i femori e per una signora di 80 anni le speranze che guarisse erano poche. Andò in cancrena, nonostante tutte le cure, e morì dopo due mesi di sofferenze. Nonna Angiolina andò a curarla giorno e notte. Anch’io le restai vicina fino all'ultimo, nel delirio chiamava i suoi, poi una sera urlò: “Valeria, prendi una forbice, toglimi quel coccodrillo che mi sta mangiando la gamba…”. Si spense, senza sapere che mio padre l’aveva già preceduta.
Ma forse tutto questo già ve l'ho raccontato.