Dopo aver saputo che andavo a
mondare, la nonna appena poteva alla sera mi telefonava. Non voleva
crederci che io, così delicatina, schifiltosa e piena di pretese
riuscissi a stare nei campi. Sapevo che era orgogliosa di me, anche
se mai le uscì una parola di incoraggiamento. Avrebbe voluto che
proseguissi la scuola, la monda non mi avrebbe portato oltre al
lavoro da manovale.
Sorrideva e faceva spallucce quando le dicevo che
avevo mondato un campo da paura, pieno di “porri” che m'avevano
spaccato le mani, borbottava che mica era mondare quello che facevo,
io giocherellavo, visto che i diserbi lasciavano ben poco da
togliere. Eppoi 7 ore cos'erano, confronto alle sue 12 e il
trapianto? Fatto giusto negli angoli dove il trattore aveva lasciato
vuoto, mica capitava quando passavano i seminatori, a mano. Poi si
pentiva d'avermi demotivata e mi diceva che le ore andate erano
comunque uguali nel presente e nel passato, piegate si deve stare e
la fatica c'è tutta. Così partiva a raccontare della sua gioventù
e di come andavano allora le cose.
Gli
anni più duri in cascina furono quelli del fascismo. I miei nonni
avevano accettato il regime, perché dal loro padrone ne sentivano
parlare bene, diceva che Mussolini era stato a Pavia e aveva dato
ordine di sovvenzionare i proprietari terrieri perché potessero
migliorare le colture, assumendo ancora di più manodopera,
trattandola meglio perché lavorasse sodo e bene, voleva che il
prodotto italiano fosse il migliore del mondo e la Lomellina, così
diceva il Duce “era
il suo fiore all'occhiello”.
Naturalmente i braccianti avevano capito subito che le sovvenzioni
erano rimaste nelle tasche dei padroni e la loro paga era rimasta
come prima, come le condizioni di vita infami che avevano, quasi da
schiavi. Anche i piccoli fittavoli ebbero di che lamentarsi, perché
solo le grandi proprietà furono aiutate, mentre le piccole caddero
sotto la “protezione” dei padroni che così sfruttavano non solo
anche il loro terreno ma pretendevano la manodopera.
Nonna Angiolina diceva che per
le mondine locali l’arrivo delle forestiere portava solo grane. Il
treno da Pavia le scaricava in piena notte in stazione dopo ore e ore
pressate come bestie nei vagoni e fino al mattino successivo i
padroni non andavano a prenderle. Le donne, stremate, salivano poi
sui trattori diretti alle cascine. Non avevano neppure il tempo di
metter giù la valigia di stracci, che subito venivano divise in
gruppi e condotte agli argini delle campagne da mondare.
A sera
cucinavano e facevano amicizia con le altre. Ogni ragazza locale
aveva il suo bel da fare per cercare di non farsi portare via l’uomo
dalle forestiere. Molte di loro erano sposate, con figli, e venivano
a lavorare in Lomellina per aiutare la famiglia, Sapevano del
sacrificio che le aspettava, mesi lontane dalla loro casa, dal
marito, ma tante altre, sistemate e non, volevano divertirsi e lo
facevano a spese dei poveretti che stavano nei paesi vicini. C’era
chi si teneva l’amante fisso in trasferta e il marito a casa!
A cena finita le più
disinibite si sedevano attorno al fuoco sull’aia, lasciandosi
guardare da gruppetti di ragazzi e uomini venuti in bicicletta
apposta per spassarsela un po’. Magari salutavano presto la
fidanzata e via di corsa a caccia di mondine. Quante si sono
fermate, innamorate perse di uno del posto. Venete, emiliane, liguri…
Da mia nonna stavano soprattutto bresciane e piacentine che non si
sopportavano molto e se le davano tra loro di santa ragione!! Certo
le forestiere avevano tempo di svagarsi alla sera, mentre le mondine
locali oltre al lavoro in risaia dovevano accudire la famiglia e
sistemare la casa.
Per le locali la risaia non
era un fenomeno transitorio ma costante, presente nella loro vita:
esse lavoravano il doppio o il triplo in campagna, al contrario delle
braccianti in trasferta solo per due mesi, in quanto cominciavano a
febbraio con gli interventi di pulitura della risaia, proseguivano
durante la monda vera e propria che avveniva da maggio a fine giugno
e con il trapianto in luglio, finché, lasciate partire le
forestiere, le donne del posto venivano mandate ad estirpare il
crodo, finendo con il dare un ultimo aiuto, se richiesto, a settembre
con la mietitura, questa effettuata quasi esclusivamente dagli
uomini, come accadeva per la semina.
Quindi, il fatto di avere
maggiori impegni e responsabilità nei confronti di chi era invece
solo di passaggio restava, in effetti, un punto d'incontro difficile,
oltre ad altre differenze di cultura e di costumi. Le donne che
abitavano in cascina avevano una collocazione stabile, mentre le
reclutate spesso venivano spostate e inserite in altri compiti non
subordinati direttamente alla campagna, lavori di natura a volte
maschile, molto faticosi. Inoltre le forestiere venivano un po'
soggiogate dalle locali che le trattavano con inferiorità, tenendole
sempre sott'occhio e al primo sgarro portate dal padrone per essere
da lui umiliate.
Eppure, tra tanti dissapori e
conflitti tra le campagne, nelle squadre di mondine venivano
condivisi tanti problemi, da quelli legati alla famiglia, ai figli,
al lavoro, al trattamento ingiusto della donna. Le mondine, anche se
appartenenti a gruppi sociali diversi, se non antagonisti, erano
accomunate dalla loro condizione sociale fragile.
Ai tempi del fascismo però
qualcosa cambiò, soprattutto per le locali, che, trovandosi con
difficoltà domestiche sconosciute alle forestiere, ebbero un aiuto
incredibile dalla formazione di asili e nidi che potessero accogliere i
bambini in età prescolare, altrimenti abbandonati alle cure di
fratelli anch'essi piccoli o all'incuria delle corti, se non lasciati
addirittura in fagotti posti sull'argine.
Nello stesso periodo vennero
organizzati anche i pasti, altro problema duro da risolvere, in
quanto, se la donna restava nei campi tutto il giorno, difficilmente
era possibile per lei preparare da mangiare.
Dapprima le donne si alzavano
a turno alle due di notte, sorteggiate nelle squadre, per mettersi a
cucinare almeno del riso bollito con verdure per il pranzo e della
minestra per la cena. Venne però il giorno in cui nelle cascine più
grandi cominciarono ad organizzarsi veri e propri refettori, ai quali
potevano accedere anche le mondine locali. Il proprietario terriero
disponeva di locali adibiti a cucine e a turno delegava delle donne
alla preparazione dei piatti caldi serali.
Nonna mi raccontò anche della
dura battaglia per mantenere i salari a 11 lire, anziché 10
centesimi meno. Tra gli anni ’30 e ’35 ci fu una grave crisi, il
Governo decise di abbassare gli stipendi ai risaroli per favorire
l’esportazione dei nostri cereali e battere la concorrenza
straniera.
Si diffuse il malcontento tra
le file dei lavoranti, fino a superare ogni barriera gerarchica.
Nonostante il no deciso dei padroni e l’intervento di sindaci,
polizia e sindacati fascisti, nella stagione del ’31 ci fu uno
sciopero generale. Il Governo però non poté cedere sulle paghe, e
cercò di dribblare diminuendo le ore lavorative.
Ma le mondine non volevano
lavorare di meno, volevano più soldi a giornata!! Certo per le
locali le 8 ore potevano andare bene, ma per le forestiere la
riduzione dell'orario era una presa in giro, visto che avevano
interesse a lavorare il più possibile per quei due mesi di
trasferta, non volevano perderci un terzo del guadagno. Locali e
forestieri arrivarono quasi alle mani per tale motivo.
In mezza giornata vennero
allestiti convogli per collegare Pavia a Vercelli, città in cui il
Governo decise di costituire l’Ente Nazionale Risi. Quel giorno i
treni scaricarono in stazione fiumi di contadini e mondine pronti per
manifestare. Nonostante fossero dei moderati, anche i miei nonni
presero parte al corteo, cantando a squarciagola i canti di protesta.
Il successo non fu quello che
si aspettavano gli appartenenti al settore risiero, anche se apportò
alcuni miglioramenti nel vitto e nelle condizioni di vita dei
braccianti.
Era davvero gente mite, quella
di campagna. Durante la guerra il comportamento dei miei nonni fu
remissivo e sottomesso. All'apparenza, perché come per molti altri
abitanti di cascine mai si rifiutarono di aiutare qualche disertore o sbandato, a
nonna sembrava di aiutare il suo stesso figlio, il suo stesso
fratello. In Lomellina la Resistenza non aveva avuto azioni vistose
come nel Monferrato, agiva in modo più sordo, ma comunque
fondamentale per minare la sicurezza fascista.
Finché all'alba del 25 d'aprile del
'45 si presentò un messo comunale che affisse davanti al portone
della chiesa un manifesto: “Io Comandante Festini ordino alla
popolazione la calma assoluta e l'ordine perfetto. Il paese è
tornato libero ed ora il primo impegno di noi, cittadini italiani, è
quello di ricostruire e di risanare l'Italia. Coloro che saranno
sorpresi in disordini nella popolazione saranno puniti secondo le
leggi di guerra”.
La
cascina dove stavano i nonni, grande come un paese e a quell'ora
già brulicante di vita, di uomini e donne in partenza per la
campagna si bloccò completamente. La nonna teneva al collo mia madre
di appena un anno, le baciò la testa piccolina, i capelli profumati
e corse da mio nonno che stava nelle stalle a mungere. Chiunque
urlava “la
guerra è finita” “ la guerra è finita”,
sembravano matti. I bambini senza mutande giravano per l'aia, le
madri s'erano dimenticati di loro, le galline annaspavano il mangime
che quel giorno neppure arrivò, talmente l'intera comunità era
invasa dall'euforia, pazza di gioia.
Non mancarono comunque anche lì
le rappresaglie antifasciste e per qualche settimana nei cascinale
furono tenuti dei coprifuoco e delle ronde per sorvegliare i pagliai,
i silos, onde evitare incendi e danni da parte di folli. Di buono
c'era che il lavoro in campagna incalzava talmente i lavoranti da
raffreddare i bollori di tutti, che stanchi morti, alla sera
crollavano nel loro giaciglio, senza forza per andarsene in giro a
far cagnara.